Con la loro compagnia Teatri 35, Gaetano Coccia, Francesco Ottavio De Santis e Antonella Parrella hanno dato nuova vita a un’antica forma d’arte: i tableaux vivants, i “quadri viventi” in cui gli attori ricreano, dal vivo, le grandi opere della pittura. Dalla Napoli del Settecento fino ai palcoscenici internazionali, il loro lavoro fonde teatro, corpo, musica e luce, trasformando la scena in una bottega artistica che prende forma davanti agli occhi dello spettatore. Ora, dopo anni di tournée in Europa e in Asia, Teatri 35 sbarca negli Stati Uniti con Chiaro Scuro, spettacolo ispirato ai capolavori di Caravaggio.
Com’è nato il vostro progetto artistico e come si è sviluppato nel tempo fino a diventare lo spettacolo che porterete in America?
Gaetano Coccia: Questo lavoro nasce parecchio tempo fa. La nostra compagnia si è formata nel 2010 e da allora portiamo avanti un progetto sulla tecnica dei tableaux vivants, una pratica scenica antica che risale al Settecento. Non ci siamo inventati nulla, anzi, questa modalità esisteva già e aveva avuto particolare successo a Napoli alla fine dell’Ottocento. Ciò che abbiamo fatto noi è stato reinterpretarla, modificandone il percorso artistico.
I tableaux vivants originariamente erano immagini fisse: gli attori ricreavano un quadro e restavano immobili per un tempo prolungato, mentre il pubblico poteva ammirarli come un’opera pittorica. Noi abbiamo voluto trasformare quella staticità in movimento, renderla spettacolo. In scena gli spettatori non vedono solo il quadro finito, ma anche la sua costruzione. Gli attori utilizzano stoffe e materiali che suggeriscono forme e colori, e il quadro prende vita davanti ai loro occhi. Non ci vestiamo come i personaggi originali, non usiamo costumi già pronti: con stoffe e drappi creiamo dal vivo la composizione, come se fosse la tavolozza del pittore.
Come è nata l’occasione di portare questo spettacolo negli Stati Uniti?
Gaetano Coccia: È nata in modo del tutto fortuito. Lia Adelfi, presidente della Dante Alighieri Society del Michigan, è napoletana come noi e aveva sentito parlare della nostra compagnia. Ci ha contattati per proporci di portare il nostro spettacolo negli Stati Uniti. Da quel primo contatto è nata la proposta di partecipare al programma dell’Istituto a novembre. Così, quasi per caso, siamo arrivati a organizzare questa tournée americana.
Sarà la vostra prima tournee negli Stati Uniti, giusto?
Gaetano Coccia: Sì, la prima. Come compagnia abbiamo viaggiato molto, soprattutto nell’Europa dell’Est e recentemente anche in India, ma non siamo mai stati né negli Stati Uniti. È una grande emozione, perché sarà sicuramente un’esperienza importante e nuova per noi.
Tornando al vostro lavoro, è corretto dire che si tratta più di un’interpretazione che di una rappresentazione dei quadri?
Gaetano Coccia: Sì, direi che è un’interpretazione. Non siamo mai identici all’originale, sia per ragioni tecniche che artistiche. Alcune pose sono impossibili da mantenere in scena per il tempo necessario, altre volte semplifichiamo il quadro per concentrarci sul dettaglio. Ad esempio, in San Francesco in estasi la figura del santo è sorretta da un angelo in una posizione complessa: noi manteniamo l’essenza della scena, ma la adattiamo alle esigenze fisiche del teatro. A volte riduciamo anche il numero dei personaggi per focalizzare meglio l’attenzione del pubblico.
Come avviene il vostro processo creativo? È un lavoro collettivo o c’è una regia più definita?
Francesco Ottavio De Santis: È un lavoro condiviso. Come in ogni processo creativo, c’è sempre confronto, a volte anche scontro, ma è parte del gioco. Decidiamo insieme su quale autore lavorare e costruiamo tutto intorno a un tessuto musicale, che per noi è fondamentale. La musica guida i movimenti, determina i tempi, le sospensioni, i momenti in cui la scena si ferma per ricreare il quadro. Non ci diciamo tutto in scena: spesso i gesti nascono spontanei, ma dietro c’è una sintonia costruita nel tempo. Naturalmente capita anche di discutere: è il segno di una creazione viva.
Perché avete scelto questa modalità artistica e perché avete scelto Caravaggio per questo spettacolo?
Francesco Ottavio De Santis: È stato quasi un caso. Non avevamo deciso di fare uno spettacolo sui quadri viventi: arrivava da un percorso di teatro corporeo, di ricerca sul corpo e sul suo rapporto con la musica e con lo spazio. Durante alcune esercitazioni sceniche, lavorando con pochi oggetti e stoffe, abbiamo iniziato a giocare con le immagini di Caravaggio. Ci ha colpito la sua capacità di rappresentare il momento preciso in cui la scena si compie o si è appena compiuta. Caravaggio è, in questo senso, un regista ante litteram: la sua pittura è già teatro.
Il titolo del vostro spettacolo, Chiaro Scuro, richiama la cifra stilistica distintiva di Caravaggio. Quanto contano le luci nella vostra messa in scena?
Gaetano Coccia: Contano moltissimo. La riconoscibilità di Caravaggio passa proprio per l’uso della luce di taglio, e questo aspetto tecnico ci aiuta anche in scena. Basta un faro laterale, due metri davanti al centro, e già si crea quella sensazione caravaggesca.
Spesso utilizziamo uno sfondo nero di velluto, che annulla la profondità e restituisce la bidimensionalità tipica dei suoi quadri. Poi ci sono i colori: rosso, bianco e nero, i tre toni fondamentali che dominano la sua tavolozza. Tutti questi elementi insieme ricreano quella suggestione che vogliamo trasmettere. È come trovarsi dentro la bottega di Caravaggio, con quel fascio di luce che, si dice, entrasse dal tetto del suo studio per illuminare la scena. La nostra idea è far rivivere quella stessa magia.
Nello spettacolo c’è spazio anche per l’uomo Caravaggio, per la sua vita tormentata?
Gaetano Coccia: No, non affrontiamo la dimensione biografica. Non è uno spettacolo filologico sull’artista o sull’uomo “maledetto”. Raccontiamo Caravaggio attraverso le sue opere, non attraverso la sua vita. Certo, chi conosce la sua storia potrà riconoscere quei riferimenti, come nella Morte della Vergine, ma non è il nostro focus. Noi restituiamo la potenza visiva ed emotiva del suo linguaggio, non la cronaca della sua esistenza.
Qual è la vostra cifra stilistica?
Francesco Ottavio De Santis: Il nostro è un teatro della mimesi, ma non della finzione. Non ricreiamo una realtà “finta”, ma un effetto di realtà autentico. Ricostruiamo ciò che poteva accadere nello studio di Caravaggio, senza trucchi o artifici, e questo è ciò che genera l’emozione del quadro.
Non cerchiamo solo la somiglianza visiva, ma l’emozionalità che Caravaggio metteva nelle sue tele. Cerchiamo di restituire la vita che c’era dentro a quelle immagini, la vibrazione del momento creativo, la tensione tra luce e ombra.
Quali sono le vostre aspettative per questa tournée americana?
Gaetano Coccia: Siamo molto curiosi. La prima data sarà l’8 novembre al Marygrove Theater di Detroit, poi il 10 novembre a Indianapolis. Non vediamo l’ora di vedere come il pubblico americano accoglierà il nostro lavoro.
Abbiamo girato tanto ma portare il nostro spettacolo in America ha per noi un fascino particolare. Ogni volta che ci sono stato, ho sentito grande entusiasmo verso la cultura italiana, e questo mi fa pensare che il nostro spettacolo sarà accolto con calore. Le aspettative sono alte, ma sono quelle belle, che danno energia e spingono a dare il meglio.
L’articolo Il lavoro di Teatri 35 sui <i>tableaux vivants</i> di Caravaggio, spiegato da loro proviene da IlNewyorkese.





