Ettore Santucci vive e lavora a Boston da quarant’anni, dove guida la Italy Practice dello studio. Con una carriera costruita tra l’Italia e gli Stati Uniti, ha visto da vicino l’evoluzione – e oggi la tensione – dei rapporti economici globali. Spiega perché le imprese devono prepararsi a una “tregua armata” nella guerra dei dazi e come l’Italia può ancora giocare un ruolo da protagonista nell’economia globale, a partire da ingegno, capitale umano e investimenti intelligenti.
Avvocato Santucci, come descriverebbe lo scenario attuale dei rapporti commerciali internazionali?
«Forse questo dialogo potrebbe avere il titolo “guerra e pace”. La realtà è che anche dopo l’attuale fase acuta della guerra dei dazi, è difficile prevedere un ritorno allo status quo pre-2025. I dazi sono sempre esistiti, in forme diverse. Oggi siamo in piena guerra commerciale e lo scenario più realistico, per il prossimo futuro, è una tregua armata. Le imprese devono imparare – o in alcuni casi rimparare – come operare in un contesto dove il commercio è solo parzialmente libero».
Quali strumenti possono utilizzare le imprese per navigare in questa fase così incerta?
«Servono strumenti pratici, che già esistono, per raggiungere tre obiettivi fondamentali. Primo: eliminare o almeno ridurre l’incertezza, che di per sé è un costo. Secondo: contenere il contenzioso, che emergerà inevitabilmente a causa delle nuove regole e dei nuovi prezzi. Terzo: preservare il valore intrinseco del commercio internazionale. Negli ultimi 75 anni, il libero scambio ha ridotto le guerre e aumentato il benessere. Tornare indietro sarebbe pericoloso».
Lei ha detto che il profitto è l’olio nei motori dell’economia. Cosa intende?
«C’è una ragione importante per cui l’olio è fondamentale nei motori: quando manca, il motore grippa. Il profitto è l’olio. Senza profitto, il sistema si blocca. Le imprese devono poter operare, creare valore, scambiare. E farlo in un contesto regolato ma fluido».
L’Italia ha ancora un vantaggio competitivo oltre i tradizionali settori del Made in Italy?
«Assolutamente sì. L’Italia esporta eccellenze non solo nel Food, Fashion e Ferrari. Penso ad esempio alle macchine utensili, agli apparati elettronici per il fotovoltaico. Sono settori ad alto valore aggiunto, dove l’intelligenza ingegneristica italiana fa la differenza. In più, grazie a strumenti come i Porti Franchi negli Stati Uniti, le imprese italiane possono creare valore aggiunto direttamente sul territorio americano, ottimizzando anche l’impatto dei dazi».
E in questo contesto, l’on-shoring è davvero una soluzione realistica per gli Stati Uniti?
«Poco o niente. Si parla di riportare la manifattura dell’acciaio in America, ma intanto ci siamo appena venduti US Steel. Piuttosto, c’è una vera opportunità in settori ad alta innovazione. Penso, ad esempio, alla produzione farmaceutica. Gli Stati Uniti fanno ricerca e sviluppo, ma poi producono altrove. Oggi, italiani in Italia e in America stanno sviluppando tecnologie per automatizzare la produzione di principi attivi, una sorta di “robotizzazione farmaceutica” made in Italy. Questo è on-shoring utile, sostenibile, e strategico».
Il capitale può ancora giocare un ruolo centrale nel rilancio del sistema produttivo italiano?
«Certo. Oggi il motore della globalizzazione non sono solo le multinazionali, ma i fondi: venture capital, private equity, capitali dinamici e geograficamente mobili. Gli italiani, in questo settore, hanno una presenza significativa. Ma il sistema italiano ha ancora troppe barriere. Servirebbe una politica industriale che agevoli e disciplini l’accesso dei capitali esteri. Non per colonizzare l’Italia, ma per farla crescere».
Lei vive da quarant’anni negli Stati Uniti. Il sogno americano è ancora vivo?
«Io dico sempre: tutto quello che ho tra l’orecchio destro e l’orecchio sinistro me l’ha dato l’Italia. Tutto il resto, l’America. Quando sono arrivato, era davvero the shining city on the hill. Negli ultimi anni, un po’ di quella luce si è affievolita. Oggi, paradossalmente, lo spirito di apertura e opportunità si ritrova in Europa. Ma non bisogna scegliere: dobbiamo continuare a scambiarci idee, competenze, esperienze. La globalizzazione, checché se ne dica, continua a fare bene. Lo scambio – commerciale, intellettuale, culturale – è sempre preferibile al conflitto».
L’articolo Economia globale e Italia: ne parliamo con Ettore Santucci proviene da IlNewyorkese.