Alligator Alcatraz e le prigioni più dure del mondo

Ad inizio luglio, nelle Everglades, regione paludosa della Florida, è sorta una nuova struttura detentiva progettata per ospitare migranti in attesa di espulsione: Alligator Alcatraz, come l’hanno soprannominata i media americani per la sua posizione in un’area infestata da alligatori e per la sua somiglianza con il carcere di Alcatraz.

I racconti che emergono dall’interno del centro mostrano una realtà complicata per gli ospiti, e anche per chi ci lavora. Secondo diverse testimonianze raccolte dai principali quotidiani statunitensi, i detenuti vivono in condizioni di estremo disagio, con servizi igienici inadeguati, cibo scarso e infestato da insetti, tende che si allagano regolarmente durante i frequenti temporali tropicali e luci artificiali lasciate accese senza interruzione. La struttura non è infatti particolarmente adeguata per affrontare la rigidità climatica e ambientale della regione, un problema che era già stato sollevato da diversi media durante i primi annunci.

Da quando due cittadini italiani, Fernando Eduardo Artese e Gaetano Mirabella Costa, sono finiti tra i detenuti, anche l’Italia ha iniziato ad attenzionare il centro di detenzione. Le loro storie hanno fatto luce sulle condizioni in cui vengono trattenute migliaia di persone, spesso per infrazioni minori o irregolarità burocratiche.

Questo è un campo di concentramento. Ci trattano da criminali, allo scopo di umiliarci. Siamo tutti lavoratori e persone che badano alla loro famiglia

Fernando Eduardo Artese, detenuto italiano, al quotidiano Tampa Bay Times

I due italiani trattenuti nella struttura rappresentano due esempi dei detenuti di Alligator Alcatraz. Il primo, Artese, viveva da anni negli Stati Uniti e stava lasciando il paese insieme alla famiglia quando è stato arrestato per non essersi presentato a un’udienza legata a un’infrazione stradale. Mirabella Costa, invece, aveva appena finito di scontare una pena per reati comuni ed è stato trattenuto oltre i termini per la scarcerazione a causa di una violazione della normativa migratoria. Entrambi denunciano di essere trattati come criminali per il solo fatto di non avere i documenti in regola.

Il governatore della Florida Ron DeSantis, la segretaria alla Sicurezza nazionale Kristi Noem e il Presidente Donald Trump visitano la struttura appena realizzata

Nel solco dell’Alligator Alcatraz emergono, a livello globale, altre carceri altrettanto dure. Cinque di queste prigioni rappresentano casi emblematici di sovraffollamento, violenze, torture e morte sistematica.

1. La prigione di Sabaneta a Maracaibo, Venezuela

La Cárcel Nacional de Maracaibo, più nota come Sabaneta, fu costruita nel 1958 per ospitare circa 700 detenuti, ma verso il 2013 la sua popolazione superava stabilmente i 3 700, con situazioni di grave sovraffollamento in cui alcuni ospiti dormivano su pavimenti o in amache appese nei corridoi. Il controllo era nelle mani delle gang interne, con i “pran” che dettavano legge su cibo, acqua e spazi vitali, commettendo violenze arbitrarie. Le condizioni igienico-sanitarie erano carenti, con scarsissimo accesso a cure mediche, acqua potabile e assistenza di base, mentre le carceri, specie quelle maschili, presentavano un tasso elevatissimo di malattie contagiose e gravi traumi non trattati.

Il 3 gennaio 1994 Sabaneta fu teatro di una delle peggiori stragi carcerarie in Venezuela: un incendio scatenato durante una rivolta tra bande interne provocò almeno 108 vittime, secondo fonti ufficiali, ma diverse testimonianze suggeriscono che il bilancio superi 150 morti, molti dei quali per asfissia o ferite da fucile, mentre le autorità entrarono con la forza per sedare l’ammutinamento.

Dei detenuti sul tetto della prigione di Sabaneta durante una protesta nel 2013

Quel tragico evento scoperchiò l’assenza di controlli esterni e il fallimento del sistema penitenziario, e fu seguito solo anni dopo da un intervento diretto del governo che portò alla chiusura della struttura nel 2013, con la promessa di trasformarla in un museo della memoria carceraria.

2. Black Beach, Bioko, Guinea Equatoriale

Black Beach è una prigione situata a Malabo, sull’isola di Bioko, celebre per la sua fama oscura sin dal periodo coloniale spagnolo. Costruita negli anni ’40, inizialmente ospitava detenuti comuni, ma dopo l’indipendenza e l’instaurazione del regime di Francisco Macías Nguema divenne il luogo principale in cui venivano rinchiusi oppositori politici e accusati di tradimento. Col tempo ha consolidato la reputazione di carcere dell’orrore: risse tra detenuti, malnutrizione, mancanza di assistenza medica e torture sistematiche. Tra arresti arbitrari, processi farsa e violenze, per Amnesty e Human Rights Watch, le condizioni a Black Beach sono state definibili come un “inferno sulla terra”, in cui la carcerazione assume una funzione non solo penale, ma anche intimidatoria e politica.

Anche negli ultimi anni sono continuati i report su abusi e detenzioni arbitrarie: ad esempio, l’avvocato per i diritti umani Anacleto Micha Ndong vi è stato rinchiuso pregiudizialmente nel 2023 dopo aver denunciato il suo arresto precedente, mentre casi di torture sono stati ampiamente documentati da ONG e relatori delle Nazioni Unite. Le modalità di trattamento dei prigionieri — isolamento, percosse, lavori forzati, quantitativi minimi di cibo — sono state denunciate ripetutamente come violazioni gravi degli standard internazionali sul trattamento dei detenuti.

3. L’ADX Florence, in Colorado, USA

L’ADX Florence, noto come “Alcatraz delle Montagne Rocciose”, è l’unico penitenziario federale statunitense di tipo supermax, progettato per isolare i detenuti definiti “i peggiori dei peggiori”. Situato in Colorado, il centro ospita circa 490 uomini, tutti rinchiusi in celle individuali di cemento – spesso non più grandi di 2×3 metri – dove trascorrono tra le 22 e le 24 ore ogni giorno senza alcuna interazione umana significativa. Le finestrelle sono piccole, le uniche aree comuni sono cortili minuscoli, e ogni movimento è rigidamente sorvegliato da telecamere e porte di acciaio telecomandate. L’assenza di attività, il silenzio opprimente e la totale privazione dei contatti sociali hanno portato organizzazioni come Amnesty International e l’ONU a descrivere il regime della struttura come una forma di “tortura psicologica”.

Col tempo, il trattamento dei detenuti affetti da disturbi mentali è diventato fonte di forti critiche e perfino oggetto di azioni legali. Nel 2012, un gruppo di undici prigionieri ha intentato una class action contro il Bureau of Prisons, denunciando abusi ripetuti e l’incapacità di offrire adeguata assistenza psichica. Il procedimento si è concluso nel 2016 con un accordo che ha imposto screening medici più frequenti e la possibilità di somministrare farmaci psicotropi, oltre a trasferire detenuti gravemente malati in strutture maggiormente attrezzate. Ciononostante, la struttura continua a operare secondo un modello punitivo estremo, pensato non per riabilitare, ma per contenere e neutralizzare ogni forma di “minaccia” percepita, a prescindere dall’impatto sulla salute mentale dei detenuti.

4. Il carcere di Bang Kwang, in Thailandia

Bang Kwang Central Prison, conosciuta in Occidente come “Bangkok Hilton” e in Thailandia come “Big Tiger”, sorge nella provincia di Nonthaburi, a nord di Bangkok. Costruita nel 1933, ospita circa 6 000 detenuti, tra cui molti stranieri e una nutrita componente di condannati a morte – circa 1 000, tra cui donne e uomini nelle sezioni dedicate. È terra di lavoro forzato, mancanza di igiene e violenze disinvolte da parte delle guardie, un simbolo di severità brutale che contraddice le apparenze di ordine e legalità. Le celle, anch’esse sovraffollate, misurano solo pochi metri quadri e possono arrivare a contenere decine di persone, che dormono su stuoie sui pavimenti, condividendo servizi igienici minimi e spazi comuni ridottissimi. Fino al 2013 tutti i detenuti erano tenuti incatenati ai piedi tre mesi, e per i condannati a morte queste catene erano saldate come forma di punizione estrema. Le autorità hanno abolito in parte tale pratica soltanto recentemente, con l’uscita di detenuti dal carcere, ma il ricorso alle catene rimane per i soggetti più pericolosi.

Il primo ministro Yingluck Shinawatra assiste alla cerimonia durante la quale sono state levate per l’ultima volta le catene a 560 detenuti, abolendo il ricorso sistemico alla pratica

Oltre al sovraffollamento, Bang Kwang è tristemente celebre per le condizioni di detenzione al limite della tortura fisica e psicologica: scarsa assistenza medica, alimentazione insufficiente, scarsa igiene e abusi punitivi sono denunciati da Amnesty International e dal Comitato contro la Tortura dell’ONU per tutta la Thailandia. I detenuti stranieri, spesso privi di rappresentanza legale, dipendono da fondi esteri per ottenere un minimo di nutrimento o un kit igienico. Le guardie applicano punizioni arbitrarie e i sospetti di torture sono diffusi. Inoltre, prigionieri di rilievo — come i condannati a morte — sono costantemente sorvegliati dalle cosiddette “videocamere della morte”, impiantate anche nelle celle delle sezioni capitali

5. La prigione di Sednaya in Siria

Sednaya, conosciuta come la «macelleria umana» del regime siriano di Assad, si trova a circa 30 km a nord di Damasco ed era gestita direttamente dall’esercito. Dal 2011 al 2015, Amnesty International ha stimato che tra 5 000 e 13 000 detenuti fossero stati giustiziati sommariamente attraverso impiccagioni notturne, spesso effettuate in gruppi di 20-50 persone, in una struttura dove torture fisiche e psicologiche erano praticate quotidianamente. Le testimonianze raccolte raccontano battiture sistematiche sin dal «party di benvenuto», uso di camere di sale per conservare i cadaveri, misure di isolamento estremo e modalità di tortura che includevano scosse elettriche, sospensione corporale e violenze sessuali.

Dopo la caduta del regime di Assad, l’8 dicembre 2024 Sednaya è stata occupata dai ribelli, che hanno liberato migliaia di prigionieri, tra cui donne e bambini, e scoperto strutture di detenzione sotterranee dove alcune persone erano state sepolte vive. Al Jazeera ha definito il sito «un inferno», con corpi ancora nei forni crematori e segni evidenti di esecuzioni quotidiane. Il riconoscimento internazionale di queste atrocità è stato rafforzato da rapporti di Amnesty e dell’ONU, che collocano Sednaya tra le peggiori prigioni moderne — un simbolo tragico di genocidio politico e di orrori istituzionalizzati.

Bonus. Il 41-bis italiano

In Italia non spicca tanto un carcere in particolare – anche se le condizioni, negli ultimi anni, sono peggiorate drasticamente in tutte le carceri a causa del noto problema del sovraffollamento. Ma a sollevare parecchie critiche, specie di recente, è il regime del 41-bis.

Introdotto nel 1986 e rafforzato dopo le stragi di mafia del 1992, il 41-bis è pensato per interrompere i legami tra detenuti mafiosi o terroristi e le loro organizzazioni esterne. In teoria, dovrebbe prevenire interferenze criminali dall’interno del carcere, ma nel tempo è diventato sinonimo di restrizioni e privazioni molto gravi: contatti limitati, isolamento quasi totale, divieto di libri e giornali. Al 29 aprile 2025, ben 742 detenuti (l’1,19 % della popolazione carceraria) erano sottoposti a questo regime, spesso per periodi estremamente prolungati, poiché le proroghe – rinnovabili ogni due anni – sono concesse con facilità, anche in assenza di prove concrete di contatti con la criminalità.

Negli ultimi anni il 41‑bis è finito più volte al centro di polemiche e pronunce giudiziarie. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia nel 2025 per aver mantenuto il carcere duro su un ottantenne affetto da Alzheimer, ritenendo il trattamento «inumano e degradante». Di recente, la Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionalmente legittima la limitazione della permanenza all’aperto a due ore giornaliere, stabilendo che si trattava di un vincolo eccessivo rispetto ai principi costituzionali sulla dignità e la rieducazione del detenuto. A queste critiche si aggiungono casi come quello di Alfredo Cospito – anarchico in sciopero della fame per mesi – e le dure prese di posizione di ONG come Amnesty International, che definiscono il regime una forma di tortura “psicologica e collettiva”.

L’importanza delle carceri

Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni

Fyodor Dostoevskij, L’Idiota (1869)

Nell’idea moderna di giustizia, il carcere dovrebbe essere uno strumento per accompagnare chi ha commesso un reato fuori da una condizione di marginalità, di violenza, di illegalità. È una visione che affonda le radici nel secondo dopoguerra e che la Costituzione italiana, all’articolo 27, riassume in modo limpido: «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».

Questa visione, sebbene abbracciata dalla maggior parte delle grandi democrazie del mondo e dalle loro rispettive costituzioni, si scontra con la realtà: le carceri sono troppo spesso sporche, sovraffollate, violente. Non è sempre un equilibrio semplice da mantenere, ma è proprio nei luoghi più difficili che si misura la tenuta concreta dei valori democratici.

L’articolo Alligator Alcatraz e le prigioni più dure del mondo proviene da IlNewyorkese.

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