Le parole del calcio

Io non sono uno che accompagna i morti”. È vero che la data per ricordare i nostri defunti è il 2 novembre, ma questo mese rischia di essere, per il Napoli — parliamo di calcio — un mese funereo. Cinque sconfitte e polemiche a non finire, suscitate più che dal cosiddetto ambiente dal cosiddetto coach.

Quelle parole le ha dette infatti un grande allenatore (ha appena vinto uno scudetto) e un grande comunicatore: Antonio Conte, dopo la brutta sconfitta del suo Napoli domenica scorsa a Bologna, che non è proprio l’ultima scartoffia del nostro campionato di Serie A, visto che è a quattro punti dalle prime, Inter e Roma.

Ma parliamo del Napoli, che rimane, a questo punto della stagione, ancora in corsa per tutto ed è secondo col Milan a 22 punti. Il tema di questa mia riflessione non è però il calcio giocato — per quello avete già trovato centinaia di pezzi da domenica a oggi.

La questione qui è il linguaggio, e che cosa si porta dietro il linguaggio simbolico in uno sport popolare di massa come il calcio e in una città, Napoli, dove il calcio è una totale passione collettiva, una magia che coinvolge le persone e la città.

Basti pensare che il lunedì in prima serata ci sono sette o otto programmi (io ne ho scritto e portato al successo uno) tutti dedicati alla squadra partenopea, e che sommati fanno più teste di un singolo programma della tv nazionale generalista. Basti pensare che, quando ero direttore di Sport Mediaset, il marketing mi disse che i tifosi del Napoli sono una comunità sparsa per tutta l’Italia, e che gli azzurri sono l’unica squadra di una grande città — tolte Juve, Milan e Inter — ad avere seguito in tutto il Paese.

Per questo le parole di Conte sono state una bomba. Conoscendolo un po’, sarà stata una provocazione voluta, ma certo durissima, quasi estrema. Dare del “morto” ai propri giocatori — che sono quelli che ogni volta scendono in campo e che devi trattare come figli (poi i figli si educano e si sgridano, se serve) — è molto pesante.

Lo ha detto per risvegliarli? Lo ha detto perché li considera già “andati” e quindi pensa di andarsene, come pensano in tanti, anche lui a fine stagione? Quello che si sa, con il senno di poi, in queste ore è che il confronto allenatore-giocatori ci sarà.

Ora gioca l’Italia, ma poi si riprende con partite decisive. Pare che il mister sia molto deluso dalla vecchia guardia, sia in termini di rendimento sul campo e in allenamento, sia di aiuto a inserire i nuovi. Pare che il mister sia molto scontento dei nuovi, ma gli esperti ribadiscono che la società ha speso 310 milioni di euro in due anni per lui.

E la società, appunto, che dice? Pare che il grande presidente, Aurelio De Laurentiis, appoggi l’allenatore. Eppure anche lì un confronto ci sarà.

E la piazza? Freme, quasi offesa, ma non siamo ancora al punto di rottura. Troppo presto: c’è ancora troppo in gioco.

Però, caro mister, un consiglio: moderi le parole anche quando — e soprattutto — è arrabbiato. Specie quando uno sport è così popolare da coinvolgere più persone di quelle che vanno alle urne.

L’articolo Le parole del calcio proviene da IlNewyorkese.

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